Chris Rundle Band, suonare davanti a un pubblico, quello è il momento in cui viviamo più intensamente la nostra musica

La Chris Rundle Band nasce a Bologna dalla collaborazione artistica tra Chris Rundle, cantante e chitarrista blues-folk inglese, e Enrico Pitaro, chitarrista jazz calabrese – con il contributo del contrabbassista Giannicola Spezzigu e del batterista Marco Raimondi. Partendo da tradizioni ed esperienze apparentemente lontane, Chris e Enrico hanno trovato insieme un loro linguaggio musicale molto originale: un blues elegante con influenze jazz.

MIAB: “Pianura Blues” è il tuo nuovo album. Come è nata la scelta del titolo?
Chris:
L’idea dell’album è di usare il linguaggio del blues per narrare la pianura emiliano-romagnola. Si tratta di una narrazione che nei testi si ispira alla poesia di uno dei poeti dialettali più importanti d’Italia, il romagnolo Giovanni Nadiani – scomparso nel 2016. A lui è dedicato tutto l’album e in particolare il nostro primo single, “Johnny’s Blues”.
Ho collaborato per molti anni con Nadiani, facendo spettacoli di poesia e musica in tutta la bassa romagnola; quindi, anche se sono di origine inglese, questo è un territorio che sento mio. Questo senso di appartenenza è rafforzato dal fatto che lavoro da 30 anni a Forlì come docente universitario, presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell’Università di Bologna. Vivendo a Bologna e facendo il pendolare verso Forlì, ho passato gran parte della mia vita lavorativa ad attraversare la pianura lungo l’autostrada A14 – un viaggio che viene evocato nella canzone “Return Journey”.
A questa mia esperienza si aggiunge anche quella di Enrico Pitaro, co-fondatore del gruppo e calabrese di origine. Per entrambi l’Emilia Romagna è una terra adottiva caratterizzata ai nostri occhi soprattutto dalla sua pianura – un paesaggio così diverso dalle nostre terre di origine, con un’atmosfera melanconica e poetica insieme.

MIAB: Come nasce l’incontro con Enrico Pitaro?
Chris:
Enrico ed io ci siamo conosciuti a Bologna nel 2014. Inizialmente, prendevo lezioni di improvvisazione sulla chitarra da lui ; ma capimmo presto che c’era una bella intesa musicale tra di noi e quindi decidemmo di fondare un gruppo.
Siamo partiti come trio, con Giannicola Spezzigu al contrabasso, registrando un primo EP intitolato Cave Sessions (2015). Dopo pochi mesi si aggiunse Marco Raimondi alla batteria; e la formazione è rimasta quella fino a quest’anno quando Giannicola ha deciso di tornare in Sardegna e al gruppo si è unito Paolo Ferrari.
All’inizio facevamo principalmente brani tratti dalla tradizione roots americana, cercando comunque di scegliere canzoni non scontate o particolarmente conosciute. Ma gradualmente, con il migliorare della nostra intesa, Enrico ed io abbiamo cominciato ad aggiungere canzoni originali al nostro set. L’idea dell’album Pianura Blues l’abbiamo avuto presto, quindi quasi tutti i nuovi brani che componevamo erano pensati per questo progetto.
La cosa più interessante, dal mio punto di vista, è come il nostro modo di suonare e comporre si è evoluto. Siamo partiti da esperienze e tradizioni molto diverse: io immerso nel folk-blues e Enrico nel jazz; ma con l’intensificare della nostra collaborazione, ci siamo avvicinati stilisticamente. In particolare, penso che Enrico suoni il blues in modo molto originale, con uno stile melodico e intenso, che ha poco del linguaggio standard usato da tanti chitarristi blues. E credo che anche il mio modo di cantare non rientri nello stile tipico di tanti cantanti blues. A mio avviso si può suonare il blues sostanzialmente in due modi: puntando su uno stile che rientri nella tradizione, magari anche facendolo evolvere con contaminazioni da altri generi; o puntando fondamentalmente su una emozione che è blues, una ricerca della commozione attraverso la musica – che è sempre il nostro obiettivo.

MIAB: Sei mai stato preso dallo sconforto a tal punto di voler smettere?
Chris:
Per tutto quello che riguarda la composizione dei brani e la registrazione dei dischi, mi diverto sempre. È sconcertante quanto la musica si sia svalutata negli ultimi vent’anni e quanto, ormai, un album non renda quasi niente a livello economico; ma è comunque un’attività che da tante soddisfazioni a livello artistico.
Per quanto riguarda i live, invece, la situazione è veramente difficile. Ma noi vogliamo suonare davanti a un pubblico, quello è il momento in cui vivi più intensamente la tua musica, quindi non penso di smettere.

MIAB: Synth e suoni campionati oppure un sound più genuino e naturale?
Chris:
Per il genere che facciamo noi, credo che un sound naturale sia fondamentale: è più genuino perché più imprevedibile; gli strumenti sono vivi e rispondono al tocco del musicista, ogni volta in modo sottilmente diverso. E poi la bellezza sonora che ti possono regalare gli strumenti veri non ha uguali. Parlando della chitarra, che è lo strumento che io conosco: io suono una Gibson ES 125 degli anni ’60 con una Fender Blues Jr e come acustica una Gibson J45, e Enrico una Telecaster thinline custom con una Mesa Boogie. Sono strumenti dove anche un semplice accordo ti commuove; e questa commozione diventa ispirazione quando suoni.
Poi, per il nostro genere, è fondamentale registrare i brani live, senza over-dubbing – eccetto la voce che abbiamo dovuto aggiungere in over-dub dato che suono anche la chitarra. Le nostre sono canzoni relativamente semplici, che prendono vita dalla tensione e la sinergia che si crea tra i musicisti quando stanno suonando insieme, ascoltandosi a vicenda. Invece la ‘perfezione’ che si crea con le tecniche di campionamento, ripetizioni di frasi brevi e registrazioni a strati di over-dubbing ucciderebbe questi brani e l’emozione che possono trasmettere.
Qui devo dire che l’intesa con il nostro ingegnere del suono, Domenico Meggiato, è stata fondamentale. Ha capito subito il tipo di suono che cercavamo e ha trovato un equilibrio perfetto, a mio avviso, tra mantenere qualche imperfezione del live e le correzioni che sono ormai d’obbligo in qualsiasi registrazioni fatta con i tools che abbiamo a disposizione oggigiorno.

MIAB: Chi vorresti come Feat. nel tuo prossimo lavoro?
Chris:
In realtà abbiamo già in programma di fare una nuova versione della canzone “Return Journey” con la cantante bolognese Eloisa Atti. Ha una voce bellissima che ricorda Billie Holiday e si trova pienamente suo agio sia con le canzoni jazz sia con la tradizione roots americana nella quale rientrano molte delle sue composizioni (vedi il suo album Edges).
A parte questo, nel nostro prossimo lavoro vorremmo aggiungere uno strumento, che potrebbe essere un pianoforte o magari un clarinetto – non abbiamo ancora deciso. Giusto per creare un sound diverso, senza scomporre l’intesa che abbiamo già creato.

MIAB: Che cosa ne pensi della scena musicale italiana in generale?
Chris:
Trovo molto positivo il fatto che un inglese possa venire qui e cantare le sue canzoni in inglese, con uno stile anglo-americano, ed essere accettato e ascoltato. Vi sembrerà scontato, ma non lo è. Il contrario sarebbe impensabile. Un musicista italiano che vuole farsi strada nel mondo anglo-americano deve allinearsi con la cultura musicale locale. Questo non è solo dovuto al fatto che la musica popolare è dominata dall’inglese; è una differenza che si riscontra in tanti ambiti culturali dove il dominio dell’inglese non è così netto. Semplicemente, voi siete molto più aperti verso le culture straniere di quanto non lo siano gli inglesi.

Un’altra cosa che apprezzo molto è che generalmente gli italiani non hanno problemi a mostrare il loro entusiasmo. Non siete persone invidiose, non vi sentite sminuiti dal successo altrui. E’ una bellissima qualità che è più difficile trovare dalle mie parti.

La cosa che invece apprezzo meno, è la tendenza di molti nel pubblico qui in Italia a non ascoltare, a fare sempre rumore e a rispettare poco chi suona. Non parlo solo della mia esperienza personale, è un problema che ho riscontrato anche in concerti con artisti di fama mondiale. Per questo, amo molto quei locali dove si crea una cultura di ascolto.

In fine, pensando al mercato musicale generale in Italia, credo che si dia troppa importanza alla bravura tecnica a scapito dell’originalità. Capita spesso, per esempio, di sentire apprezzamenti per la voce ‘incredibile’ di una cantante e la tecnica ‘strabiliante’ di un chitarrista; senza considerare che si stanno esibendo con materiale scontato e già sentito mille volte, e senza capire che tutta questa messa in mostra della loro tecnica non trasmette alcuna emozione. A mio avviso, bisognerebbe riflettere di più nella musica sul concetto di less is more. E’ chiaro che tradizioni come Sanremo e il dominio dei talent show non aiutano.

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